«L'accreditamento: un eterno incompiuto »

di Giandomenico Barcellona

Ad oltre otto anni dalla sua apparizione nel nostro ordinamento, avvenuta - com'è noto - col decreto legislativo n. 502 del 1992, l'accreditamento resta il grande incompiuto del sistema sanitario.

La sua introduzione è stata effettuata con l'intenzione di segnare un forte punto di rottura col precedente sistema delle convenzioni di cui alla 1. 833 del 1978, istitutiva del servizio sanitario nazionale.

Sono gli anni dell'inizio del risanamento del debito pubblico: l'Italia ha bisogno di inviare forti segnali di credibilità internazionale, scossa da crisi politiche e monetarie e, finalmente, il paese, costretto, muove i primi concreti passi verso modelli di mercato maggiormente moderni.

E' l'inizio delle privatizzazioni, prende avvio la riforma del pubblico impiego, austere manovre finanziarie tendono a riequilibrare l'imponente deficit di bilancio. In questo clima riformista, sotto il governo Amato, viene alla luce la prima grande riforma del servizio sanitario nazionale ed è una riforma radicalmente liberale, così tanto da venire immediatamente modificata, procedendosi col d.lgs. 513/93 a temperarne le spinte più innovatrici.

Nonostante tale opera riequilibratrice e di contenimento, il sistema normativo che ne esce, in particolare quello avente ad oggetto il sistema dei soggetti erogatori dell'assistenza sanitaria, che qui è appunto preso in esame, appare idoneo a scuotere il mercato sanitario da antichi torpori.

Viene meno il sistema delle convenzioni, ereditato dall'impianto assistenziale degli enti mutualistici e riportato pressoché in blocco nel servizio sanitario nazionale con le sue due principali caratteristiche: la scelta discrezionalmente selettiva dei soggetti erogatori da parte della pubblica amministrazione, che tanto aveva dato luogo a fenomeni consociativi in assenza di alcuna trasparenza, e la subordinazione del ruolo del privato al sistema pubblico di assistenza, quasi come contrappeso della possibilità di godere del privilegio di poter partecipare ad un mercato chiuso ad altri operatori privati.

Nell'intenzione del legislatore, entrambe queste caratteristiche vengono meno con la riforma del 1992.E vengono meno anche culturalmente: nascono le aziende USL, è tempo di liberalizzazioni, il privato ritorna in auge.

Nel tema specifico, il sistema delle convenzioni viene sostituito da quello dell'accreditamento con il s.s.n. delle strutture e degli operatori sanitari. Di nota derivazione culturale anglosassone (nordamericana in primis: Canada e Stati Uniti ne sono gli epigoni), tale ultimo istituto si propone di introdurre elementi di obiettività ed efficienza principalmente attraverso tre strumenti: 1) abbattimento di barriere normative all'ingresso, dove riferimenti oggettivi prendono il posto della discrezionalità amministrativa (tutti i soggetti in possesso dei requisiti strutturali previsti che accettino il sistema di remunerazione a tariffa hanno il diritto di entrare a far parte degli erogatori del s.s.n.: cfr. art.6 co. 6 L. 724/94); 2) introduzione di principi concorrenziali (tra privati e) tra pubblico e privato, tendenzialmente equiparati, venendo meno sistemi preferenziali di finanziamento in ragione della natura proprietaria dell'ente erogatore; i riferimenti normativi relativi a tale intendimento sono individuabili da una parte nella possibilità di libera scelta del medico e della struttura erogante, dall'altra nel sistema di remunerazione tariffaria unica a prestazione resa (d.r.g.:diagnosis related group o r.o.d.: raggruppamenti omogenei di diagnosi), sistema atto ad evitare le pregresse forme di finanziamento (a posto letto, a giornate di degenza, a piè di lista, sulla base della spesa storica) di strutture in realtà improduttive, partendo dall'assunto assiologico che dovendo il s.s.n. spendere i propri fondi per la salute dei pazienti utenti, non può eticamente acquistare a maggior prezzo quello che può acquistare a prezzo inferiore, e ciò al chiaro fine di liberare così risorse per altre forme di assistenza; 3) controllo di qualità e verifica delle prestazioni rese.

Cosa è stato attuato e cos'è rimasto del sistema così, alla sua apparizione, idealmente e strutturalmente connotato, oltre l'istanza etica anzidetta ancora oggi, pur se talora elusa, ineludibile? Già dal suo debutto il modello pratico non si è adeguato a quello teorico delineato, talvolta addirittura operandosi nulla più che camaleontiche trasformazioni finalizzate a cavalcare il nuovo mantenendo l'esistente invariato.

E ciò è avvenuto principalmente per tre ordini di ragioni: 1) una carenza del legislatore nella identificazione, definizione e regolamentazione differenziata delle zone di confine in cui il sistema di quasi mercato allora neointrodotto non avrebbe potuto funzionare, cioè di tutte quelle funzioni necessarie e per cui mal si presta il sistema di remunerazione a d.r.g. (è il caso, ad esempio, delle funzioni assistenziali quali l'emergenza, per cui è ora prevista una disciplina specifica nel d.lgs. 229/99); 2) i ripensamenti e le oscillazioni dello stesso legislatore, il quale già nelle linee guida emanate appena successivamente all'entrata in vigore del d.lgs 502, pur le stesse avendo valore meramente interpretativo e non normativo, indicava ed anticipava un modello di accreditamento a venire (e che sarebbe appunto venuto attraverso gli interventi legislativi delle finanziarie del 95 e 96 ed infine col d.lgs. 229 del 1999) del tutto svincolato dal dato legislativo del momento, introducendo interventi programmatori di ritorno, il primo dei quali i contratti tra Usl ed erogatori contenenti volumi di prestazioni e tetti di spesa per struttura sanitaria evidentemente inconciliabili con la libera scelta e la par condicio tra strutture; 3) la terza ragione consiste nel potere di conservazione dello status quo da parte dei soggetti operanti nel sistema (insiders), e ciò da parte sia degli amministratori pubblici che mal volentieri avrebbero rinunciato a forme di controllo e di potere pur essendo proprio loro i chiamati normativamente ad attuare la riforma e quindi a diminuire la loro influenza (di qui le inevitabili preesistenze), sia da parte di quegli imprenditori che avrebbero visto affievolirsi acquisite e pluriennali rendite di posizione in virtù dell'introduzione di agguerriti nuovi soggetti sul mercato.

Così il progetto iniziale, attraverso i cennati interventi normativi, episodici e disorganici, sino alla riforma del decreto legislativo 229, si è via via svuotato di contenuto tanto da potersi parlare di metamorfosi dell'accreditamento.

La ragione di fondo che ha generato tale metamorfosi è però la scelta ‑ condivisibile o meno ma tuttavia politicamente e legislativamente legittima ‑ comportante passi indietro sulla via della privatizzazione del sistema dell'assistenza sanitaria.

Fatto sta che a distanza di oltre otto anni dalla sua introduzione, la definizione che più sovente si accompagna nelle realtà regionali all'accreditamento come introdotto in effetti è quella di "provvisorio", adattamento e rimodulazione, non senza miglioramento ed eccezioni, del sistema convenzionale e dei suoi attori.

Inoltre due ulteriori fattori hanno giocato un ruolo decisivo nella partita relativa all'applicazione dell'istituto. Da una parte la giurisprudenza si è arroccata su posizioni interpretative conservative dell'assetto normativo: per la Corte di Cassazione il ruolo dei privati è rimasto in ambito concessorio (non essendosi transitati nella fattispecie autorizzatoria che avrebbe visto i privati quali coattori di un servizio universale) con quel che ne consegue in termini di status, diritti, residualità (cfr. Cassazione, sent. n. 88 del 1999). I Tribunali amministrativi, dal canto loro, hanno ritenuto ancora oggi sussistere nel settore una supremazia del settore pubblico e non una completa parità tra questo ed il privato (cfr. Tar Toscana, sent. n. 154 del 1999).

Il secondo determinante aspetto che ha contribuito non poco alla cristallizzazione dell'intero scenario e ad accrescere il trade‑off tra modello astratto e suo sviluppo concreto è stato, e resta, l'assenza della normativa attuativa, che è purtroppo tipico di troppi interventi legislativi.

Troppo spesso le riforme legislative restano quali enunciati evocativi, ed in via amministrativa si limitano ad indicazioni manageriali in assenza di normativa attuativa secondaria.

L'accreditamento non si è sottratto alla regola generale: pur essendo passato da una forma geneticamente concorrenziale all'attuale configurazione concertativa di programmazione negoziata, ora come allora manca la normativa attuativa. Una breve osservazione critica va spesa per quel che concerne l'ultima versione normativa dell'accreditamento, quella appunto della riforma Bindi, che introduce la programmazione negoziata: l'assetto oggi vigente può generare pericolose inefficienze economiche creandosi il rischio di una consociativa spartizione del mercato assistenziale: finché a decidere di livelli di spesa, budget, prestazioni e posti letto saranno regione ed Usl e non mercato ed assistito, l'imprenditore sanitario sarà indotto ad investire più sul versante politico che non in quello imprenditoriale concernente qualità della struttura e delle prestazioni offerte. Inoltre la normativa di cui al d.lgs. 229 sconta incongruenze legislative collocandosi in contrasto con la disciplina europea sull'accesso alle concessioni di pubblici servizi così come indicata dalla commissione UE nella comunicazione del 20 aprile 2000 oltre che con i principi costituzionali di imparzialità e buon andamento della p.a. che hanno inclusivamente maturato le regole comunitarie sulla trasparenza e l'evidenza pubblica, regole del tutto carenti nel nuovo accreditamento basato, com'era una volta per le convenzioni, su di una discrezionalità amministrativa quasi incontrollata nella scelta del soggetto da accreditare e sulla quantità di prestazioni dallo stesso erogabili.

Sappiamo bene come l'ultima riforma, ad oltre un anno dalla sua emanazione, sia rimasta sostanzialmente inattuata. Ma non è, poi, come abbiamo visto, che quella del 1992 e del 1993 abbiano trovato reale effettiva attuazione.

Ed abbiamo avuto modo, seppur succintamente, di osservare come la riforma del 1978 pur di grande respiro e profondamente innovativa dal punto di vista dell'attuazione costituzionale del diritto del cittadino alla salute, si sia avvalsa dell'impianto operativo anche immobiliare e funzionale degli ex enti mutualistici.

II punto ove quanto appena riferito traspare in tutta la sua gravità è quello dei requisiti strutturali: a quasi dieci anni dall'apparizione di un sistema che li pone quale pre‑condizione per l'appartenenza allo stesso, i requisiti necessari per ogni struttura sanitaria non sono stati emanati: il dpr 14/1/97 ne conteneva infatti solo un'indicazione generale, rinviando all'attuazione in sede regionale. Tale attuazione in via generale non v'è stata e lo stesso dpr è stato, come sovente accade, superato ancor prima di essere attuato, in virtù della previsione dei nuovi, ed al solito emanandi, requisiti contenuta nel d.lgs. 229/99. In pratica, il vuoto. Con quel che ne consegue in ordine alla non verificabilità e rispondenza a dettati normativi della sicurezza delle strutture. Ma quanti ospedali si sarebbero dovuti altrimenti chiudere? E forse è questa considerazione ad essere stata ostativa dell'implementazione effettiva delle norme?

Nonostante le ombre, le luci. E' indubbio che l'accreditamento, unitamente al processo di aziendalizzazione delle Usl, ha prodotto un nuovo orizzonte culturale tra gli operatori della sanità, in consonanza con i mutamenti economici dell'ultimo decennio.

Anche se, alla luce di quest'ultima considerazione, viene quasi da pensare che questa mutazione appartenga più all'evoluzione sociale e dei mercati di quanto sia frutto della voluntas costruttivista del legislatore, sta che il nuovo assetto del sistema delle prestazioni di assistenza sanitaria, sia nella sua forma concorrenziale di quasi‑mercato che in quella maggiormente protesa verso la concertazione amministrata, ha apportato un indubbio fermento tra tutti gli operatori, pubblici e privati, acquirenti ed erogatori (purtroppo talora ancora oggi "acquirenti‑erogatori"), oggi indubbiamente protesi verso una rinnovata cultura concorrenziale e competitiva, verso una maggiore qualità ed una maggiore attenzione all'utente, verso una maggiore efficienza economica per la riduzione dei costi delle prestazioni ed un migliore utilizzo delle risorse del fondo sanitario nazionale. Si stanno così producendo spinte aggregative originanti, finalmente, in un mercato che era polverizzato, soggetti di maggiore dimensione che possono beneficiare di economie di scala e di migliori strutture finanziarie e dunque trasferire parte di questo beneficio sul consumatore e sull'acquirente.

Così come frutto di questi fermenti sono le alleanze e le organizzazioni imprenditoriali ed aziendali tese al miglioramento dei servizi, e della loro economicità, tanto per ciò che concerne gli operatori privati (si pensi,ad esempio, alle forme consortili) quanto per quel che riguarda i rapporti collaborativi tra pubblico e privato (è il caso delle società miste) quanto, ancora, a livello degli stessi operatori pubblici (ad esempio, si pensi all'utilizzo dello strumento dell'outsourcing).

La parte pubblica non può non comprendere che in un mercato tendenzialmente monopsonistico, dove il regolatore è anche il più importante acquirente, chi trova maggiore vantaggio dall'assetto concorrenziale è proprio la stessa p.a. quale sostanziale consumatore.

Di fronte a ciò sta però l'ineludibile problema del senso e della sorte dell'ospedalità pubblica: una scelta effettivamente concorrenziale, portata in fondo, comporta la chiusura, od almeno la riconversione, in caso di inefficienza, degli ospedali pubblici, ciò che viene proclamato spesso a livello governativo ma che in realtà sarebbe già dovuto avvenire secondo le inattuate previsioni legislative; oppure si dovrà trasformare gli stessi in società per azioni anche da privatizzare nell'ottica ormai generalmente accettata per servizi diversi dal sanitario, ma ad anch'esso egualmente applicabile, che un servizio di pubblico interesse ‑ anche attraverso la nota formula del servizio universale ‑ può essere reso altresì da operatori non pubblici, con lo Stato che funge da regolatore e garante. Oppure, in senso opposto, si dovrà dichiaratamente sottrarre gli ospedali pubblici, come in parte, seppur surrettiziamente, già avviene oggi (si pensi al meccanismo dei ripiani) ai colpi letali della concorrenza, sferrati da operatori più attrezzati in tal senso.

Di qui si spiegano le dosi omeopatiche di concorrenza introdotte, i passi avanti ed i passi indietro, le contrapposte direzioni al contempo intraprese, che si rivelano favoritismi ed intralci - casualmente distribuiti - ora al sistema pubblico ora a quello privato. La confusione e le oscillazioni nella via da percorrere si riflettono nella (e traggono origine dalla) confusione del sostrato normativo consolidatosi in decenni di forme di stato e di governo costruite in ambienti economici del tutto differenti da quello odierno della società aperta, concorrenziale, economicamente democratica (con al centro, cioè, l'utente ed il consumatore) e globalizzata; con quel che, ne consegue in termini di equilibri e strutture normative.

Si dovrà con pazienza dipanare piano piano l'ingarbugliata matassa.

Ma può ben trattarsi di confusione potenzialmente creativa e produttiva.